Come si fa a commentare una lettera scritta da un figlio trentaseienne al proprio padre, quasi a voler tirare le somme di ciò che è stato di quel rapporto, non richiesto ma necessario?
E se a scriverla è Franz Kafka, l’immenso Franz Kafka, con quella sua prosa chirurgica, fatta di tasselli che si compongono e si allungano con una meticolosità quasi morbosa, come si fa a commentarla?
Bè, intanto, io credo, lo si fa con un certo pudore, quasi vergogna, e scusandosi.
Scusandosi, certo, anche chi la pubblica dovrebbe farlo, di premettere delle scuse, intendo, perché si sta sbirciando nella corrispondenza privata dell’autore, destinata a rimanere tale, nelle sue intenzioni.
Kafka affidò la lettera alla madre perché la recapitasse. Non lo fece. E finì poi nelle carte ritrovate e pubblicate postume.
Come per i suoi romanzi, affidati a Max Brod perché li bruciasse e da questi invece pubblicati.
Certo, noi ringraziamo, ma rimane il fatto che, a leggere questa lettera, un po’ dei guardoni lo si diventa.
Kafka scrive una lunga, lucida, amara disamina di cosa ha prodotto l’educazione impostagli dal padre e la figura stessa, ingombrante e sprezzante, del genitore. Così diverso da lui, fragile, insicuro, bisognoso di sostegno, assetato di considerazione, adorante anche per quel padre totalitario, e invece svilito e schiacciato.
Descrive minuziosamente gli effetti devastanti che le sicurezze di quel padre via via producevano sul ragazzino, l’adolescente, il giovane e l’uomo.
È un continuo specchiare la propria figura in quella del genitore e testimoniare come ne sia stato stritolato, ridotto a pezzi e piegato.
In tutto, anche nella scrittura e questo è uno dei passaggi notevolissimi di questo testo.